A profondarsi entro la eterna notte.
Febo, d’abisso rotte
Per me le leggi, oltre mi spinge: io scendo;
E il can trifauce e la negr’onda e il fero
Spaventoso nocchiero
Dietro mi lascio io già; già lieto intendo
Dove non più d’orrendo
Pianto saettan strali;
Già sono io là del dolce Lete in riva,
Dove in mille color fiori immortali
Fan argin lento all’acqua fuggitiva.
Ecco, là dove ei torce il molle giro,
Seder sul destro lato
A consiglio fra lor poche ma grandi
Alme, già figlie di benigno fato,
Che or dal mondo spariro.
Tu che sangue Affrican cotanto spandi,
Scipio; e tu che ne mandi
Tant’alme schiave a Stige, ove combatti
Per libertade infra mortali strette;
E tu che hai l’onde infette
Di sangue in Salamina; e tu che abbatti
Il Cimbro; e tu che a patti
Di servitù negasti
Vita in Utica a te; con altri forti
Di gloria ascritti ai sempiterni fasti;
Chi fia che a voi doglia sì immensa porti?1
Una donna, già altera, or lagrimosa
Veggio e supplice starsi
Dinanzi a voi, le dure sue vicende
Narrando; e ognun di voi nel volto farsi
Più che infiammata cosa...
«Sì, Dea, sì; tutto ad invasarne or scende
«Quel che a bell’opre incende
«Sacro furore onde a noi larga fosti.
«Se, del tuo nume pieni, alla adorata