Straniere a lor già fersi
Povertade e virtù: già il ferro in oro,
Ed in alga l’alloro,
E capitano invitto in signor molle,
Ed unïone e forza hanno cangiata
In rea ma disarmata,
Discordia inerte, che del par lor tolle
Pace che guerra. Oh folle
Chi spera in lor! Mal atti
A difender se stessi, altrui fien schermo?
No, no: quei legni che solcar sì ratti
Veggiam vêr noi, non è il Batavo infermo.
Chi fien, chi dunque? Dagli Ibèri liti
Sciolto han l’ancore forse?...
Che pensi? or quando mai terra sì ancella1
A libertà od a virtù soccorse?
Questi campi romiti
Ancor pel duol di loro Ispane anella;2
Questa, già un dì sì bella
Parte del mondo, or d’abitanti ignuda,
Ne faccia fe se l’Ebro altro qui apporti
Che rio servaggio e morti.
Quest’è, quest’è, che in approdar qui suda
Gente lieve e non cruda,
Benchè non sciolta mai
Da’ regi lacci: al servir cieco accoppia
Onor verace; e in cor, più ch’altra assai,
Di tromba al suon l’impeto primo addoppia.
E il crederem? fia ver che un Re sottrarne
A servitude or voglia?
Re, che di ceppi apportator pur dianzi
Là dove il Côrso impavido s’inscoglia
Tanti a Stige mandarne
Fu visto; ed ora i lor dolenti avanzi
Vuol servi tener, anzi