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APPENDICE.


I.

(Su l’alba in letto – 22 dicembre 1794).

O leggiadretta man, ch’almo lavoro
D’ampia Veneta rete a me tessevi,
Stringermi forse infra i tuoi lacci d’oro
Più ch’io nol fossi or col bel don credevi?

Io mille volte il dì per te mi moro,
Donna; e tu il vedi in quei momenti brevi,
(Che non so se più sien pena o ristoro)
In cui cogli occhi tuoi mia fiamma bevi.

M’è caro il don; ma inutil era; io cinto
Son di te tutto in ogni tempo e loco,
E il sarò sì fin ch’io rimanga estinto.

Se in contraccambio il verseggiar mio fioco
Offrirti osassi, ei rimarria pur vinto;
Perchè al troppo ch’io sento, i’ direi poco.

II.

(Alle sei di mattina in letto – 13 febbraio 1795).

Oh qual mi aggrada il dilicato viso
Cui candidetto accerchiano stringenti
Negre striscie, il tesoro in se chiudenti
Del vago crine e del soave riso!

Dalla odïosa maschera diviso
Il bel contorno oval dolce-splendenti
Mostra gli occhi celesti prepotenti
Dai quali io pendo cupido e conquiso.

Le labbra e il mento or tu sprigiona interi:
Deh sì ristora gli occhi miei dal tetro
D’orrida larva in che racchiusa t’eri.

Segue il tuo volto del tuo cuore il metro,
Che ognor mi ostenta i moti suoi sinceri
Qual puro giglio in trasparente vetro.