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l’etruria vendicata. — canto i 189


Te cui nomar poss’io diletto figlio
Fra quanti altri ne cinga il regal serto,
Te vengo io stesso a trar d’alto periglio,
A farti appien nel diffidare esperto.
Regno saratti e vita il mio consiglio,
Se m’appresti mercè che agguagli il merto;
Se i sacri onor che al nume mio qui densi,
Tempio, immagin prometti, ara ed incensi.

Ma che? tu taci?... Io veggio ben che invaso
Sei di mia deitade e l’alma e il core;
Nè v’ha dal lucid’orto al negro occaso
Chi più intenda di te che sia Timore:
Sì il sai; ma, appena in sicurtà rimaso,
Sarai tu pure ingrato e traditore:
Ch’appo altri re tuoi pari, a cui prestava
Simile ufficio, inonorato io stava.

Voi che meglio d’ogni uom saper dovreste
Quanta innata viltade in cor chiudete;
Voi che dal mondo spersi appien n’andreste,
Se vi scorgesse ognun quali vi sete;
Voi che nulla per voi nulla sareste,
E sol per l’opra mia poco parete;
Sleali, io ’l so, che è vostra usanza ria
Fingere ognor di non saper ch’io sia.

Odi perciò qual ti minaccio fero
Destin, se a me delubro e culto nieghi.
Pria che raccenda il sol questo emispèro
Tre volte, e tre la notte il vel dispieghi,
Con la vita ti fia tolto l’impero:
Nè a salvarti varran minacce o preghi;
Se di te stesso e di ciascun non tremi,
O se il timor celato in cor tu premi.

A questi detti un tale orror per l’ossa
Dell’atterrito principe trascorse,
Che del mal sonno desto, a tutta possa
Manda un acuto strido, e stassi in forse:
Poi gli si appannan gli occhi; il fiato ingrossa;
Freddo un sudor tutte sue membra ha scorse.
Ma già l’immagin vana, a lui sparita
D’altro tiranno al letto iniquo è gita.