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186 | vittorio alfieri |
I due che miri al fianco mio più presso,
Son Bruto e Cassio; in lor Roma finío:
Là Pelopida vedi; egli è quel desso
Che a dieci re pagar fe grave il fio:
L’altro Trasibul è, quei che all’oppresso
Popol di Palla tolse il giogo rio:
Ecco d’Ippia e d’Ipparco gli uccisori,
Ch’ebber divini meritati onori.
E qui tra’ miei si sta pure il gran Cato,
Benchè il ferro, che in sè crudo ei ritorse,
Meglio a Cesare in petto avria vibrato.
Ma che? tutti degg’io nomarli forse,
Quando, all’udir di un sol, già in te l’innato
Alto desir di libertà risorse?
Scegli su dunque, e non tardar più omai,
Tra fama egregia od il non viver mai.
Disse: e finiti appena avea gli accenti,
Sparía la donna col feral corteggio,
Che nell’aer dietro sè di strisce ardenti
La via segnava del celeste seggio.
Lorenzo in essa i cupidi occhi intenti
Affissa, e grida: Oimè, più non la veggio!
Ma vegg’io ben per qual sublime strada,
Fama acquistando in terra, al ciel si vada;
Ma ben intero in mente ancor mi suona
Quel parlar, che sì forte il cor m’incende
Che alla vendetta od al morir mi sprona.
Tace: e rapido sì dal letto scende,
Che, allor che l’alto Giove irato tuona,
Non così ratto il fulmin l’aer fende:
Balza in piè: ma sul letto, ecco, improvviso
Vede ignudo un pugnal di sangue intriso.
Tosto in man se lo reca; ed, in feroce
Atto rivolti al ciel gli sguardi, ei grida:
Deh, se al tuo seggio può giunger mia voce,
Ombra che a tanta impresa or mi se’ guida,
Quel ch’io pronunzio giuramento atroce
Odi, ed appieno in mio valor t’affida.
Ben il conosco, o Bruto: io già non erro:
Degno il dono è di te: questo è il tuo ferro.