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156 vittorio alfieri


CCXXXIX (1795).

Ed io pure, ancorchè dei fervidi anni
Semi-spenta languisca in me la foga;
Io pur la lira, onde alto cor si sfoga,
Chieggo, e fremendo sciolgo all’aura i vanni.

Quai mi fan forza al cor magici inganni?
Chi un tal poter sul canto mio si arroga? —
Donna, il cui carme gli animi soggioga,
Rimar mi fa, benchè tai rime io danni.

Ma immaginoso pöetar robusto
Pregno di affetti tanti odo da lei
Scaturirne improvviso e in un venusto,

Ch’io di splendida palma or mi terrei
Pe’ suoi versi impensati andarne onusto,
Più ch’io mai speri dai pensati miei.

CCXL (1795).

«Quanto divina sia la lingua nostra,»
Ch’estemporanei metri e rime accozza,
Ben ampiamente ai barbari il dimostra
Più d’una Etrusca improvvisante strozza.

Nasce appena il pensiero, e già s’innostra
Di poetico stil: nè mai vien mozza
La voce, o dubitevole si prostra,
Nè mai l’uscente rima ella ringozza.

Più che diletto, maraviglia sempre
Destami in cor quest’arte perigliosa,
In cui l’uomo insanisce in vaghe tempre.

Pare, ed è quasi, sovrumana cosa:
Quindi è forza, che invidia l’alme stempre
D’ogni altra gente a laudar noi ritrosa.