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154 vittorio alfieri


CCXXXV (1794).

Sagacemente, e con lepor, dicea
D’Aristarco il severo acuto senno:
«Carmi non fo, perch’io de’ sommi ho idea;
«E quei ch’io far potrei, far non si denno.»

Io, tutto dì, men verecondo impenno
Rime, (non carmi) che importuna crea
Non so qual Possa in me, con fiero cenno
Costringendomi a far sua voglia rea.

Mio picciol senno, anch’ei, le sgrida: Taci,
Sfacciata. Scrivi; (ella m’impone in suono
Ben altro) scrivi, e a me primiera piaci.

D’ardenti affetti a te Ministra io sono,
Di furor sacro, e d’alti sensi audaci;
Senza cui la tua lima è steril dono.

CCXXXVI (1794).

Candido toro, in suo nitor pomposo,
Re dell’armento, in suon sì amabil mugge,
Mite pur tanto e umano ed amoroso,
Che di Ninfe almo stuol da lui non fugge.

Anzi, Europa infra quelle ha il cor tant’oso,
Che di sua man gli porge erbe, ch’ei sugge,
La bianca man lambendo ossequioso
Sì, ch’ella il dorso premergli si strugge.

Già se n’avvede il simulato, e piega
Semplice in atto le ginocchia al suolo,
E del salirvi tacito la prega.

A passo a passo pria, ma tosto a volo
Ei se la porta, e d’arrestarsi niega,
Finchè dal tauro esce il Rettor del Polo.