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CCXXV (1792).

Per la decima volta or l’Alpi io varco;
E il Ciel, deh, voglia ch’ella sia l’estrema!
L’Italo suol queste ossa mie, deh prema,
Poichè già inchina del mio viver l’arco!

Di giovenile insofferenza carco,
Quando la mente più di senno è scema,
Io di biasmarti, o Italia, assunsi il tema,
Nè d’aspre veritadi a te fui parco.

Domo or da lunga esperïenza, e mite
Dai maestri anni, ai peregrini guai
Prepongo i guai delle contrade avíte.

Meco è colei, ch’ognor seguendo andai:
Sol che sian pari le due nostre vite,
Chieggioti, Apollo, s’io fui tuo pur mai.

CCXXVI (1792).

Oh brillante spettacolo giocondo,
Di cui troppi anni io vissi in Gallia privo!
Celeste azzurro, d’ogni nebbia mondo,
Cui solca d’igneo Sole aurato rivo.

Qui al Capricorno, invan gelato e immondo,
Fa guerra ognor dell’alma luce il Divo:
Qui non contrista di canizie il mondo
L’ispido verno, e i fior non prende a schivo.

Scevra d’ogni torpore, ecco disserra
L’urna il biondo Arno alle volubili acque,
Che irrigan liete la Palladia terra.

E qui il mio spirto pur, che al gel soggiacque
Là d’oltramonti, or ridestato afferra
La dolce Lira, a cui fors’anco ei nacque.