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116 vittorio alfieri


CLXXVI (1786).

Crudel comando! e per pietà l’ho dato,
Piangendo; e in pianto, il doloroso effetto
Di momento in momento udirne aspetto
Dal percussor feroce insanguinato.

O buon mio Fido; a che ci tragge il fato!
Tuo pestifero morbo hammi costretto
A farti, in prova del mio lungo affetto,
Tre palle (oimè!) piantare entro al costato.

Il mio bel Falbo! il mansüeto ardente,
Che di portar mia donna iva sì altero;
Che le obbediva con sì umana mente!

Deh! come tal sentenza uscia dal fero
Mio labro?... Eppure, egro insanabilmente...
Mai non porrò più il core in niun destriero.

CLXXVII (1786).

Non bastava, che lungo intero il verno
Sepolto io stessi in solitudin trista,
Privo di quella cara ed alma vista,
Che sola in tregua pon mio pianto eterno?

Mute selve, ov’io sfogo ebbi all’interno
Mio duol, cui speme pur iva frammista;
Ecco, ognuna di voi vita racquista;
E nuove fronde, e fior novelli io scerno:

Non, lasso! in me, cui la speranza è tolta
Di riveder tra queste amene piagge
Donna, in chi mia ventura e vita è accolta.

Gioja non v’ha, che omai più il cor m’irragge;
Morte mi s’è d’intorno ad esso avvolta,
E lenta lenta a sua magion mi tragge.