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100 vittorio alfieri


CXLIV (1784).

Oh più assai che Fenice amico raro,
Che amavi me, nulla da me volendo;
Che di vita tempravi a me l’amaro
Meco i miei studj e i pianti dividendo;

Deh, sapess’io laudarti in stil sì chiaro,
Che dal sepolcro il tuo nome traendo,
Io nel mandassi riverito e caro
All’altre età, cui di piacer più intendo!

Ciò per te stesso far potuto avresti
Meglio assai ch’io, se avversi i tempi e il loco
Non t’eran, dove occulti dì vivesti.

Ben d’ingiusta fortuna è crudo il giuoco;
Voler che il fango vile in luce resti,
E ignoto e muto il più sublime fuoco.

CXLV.

Oltre all’ottavo lustro un anno appena
Varcando iva lo amico del mio cuore,
Quando il fratello suo morendo il mena
Seco in tomba, sì grave ei n’ha dolore.

Eppur l’infermo, che duo dì premuore,
Doppio aver lascia e libertade piena
Al mio, che esemplo di fraterno amore,
Perde a sì fera vista e polso e lena.

Nè già gli è tolto nel german l’amico;
Ancor ch’ottimi entrambi, eran dispari
D’alma, d’ingegno, d’indole, e di brama.

Pietà fu sola (e in ver, del tempo antico)
Che orbato ha Siena, e me, d’uno dei rari,
Ch’ebber alte virtudi, ed umil fama.