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DIALOGO. 11


da’ libri, che miei proprj, riputerebbero essi; e con ragione forse, vedendomi di sì alti sensi severo maestro, e di sì vile vita, quale è la nostra, arrendevol discepolo.

VITTORIO.

Che tu, figliuol di te stesso, per te stesso altamente pensavi, io ben lo seppi, che vivo conobbiti; saputo del pari lo avrebbero con lor vantaggio e stupore quegli uomini tutti, che da’ tuoi scritti conosciuto ti avessero. Ma in te più lo sdegno dei presenti tempi potea, che l’amor di te stesso e d’altrui.

Eppure degno non eri, nè sei, di questa morte seconda; e se io lena e polso mi avessi, se dal pietoso alto e giusto desio d’onorare eternando il tuo nome, pari all’ardore le forze traessi; se in pochi, ma caldi periodi mi venisse pur fatto di esprimere la quintessenza, direi, della sublime tua anima; di quella fama che tu non curasti, verrei forse io in tal guisa ad