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atto quinto 55
se la vita insidiando, e non l’onore,

tu m’avessi, com’oggi, ognor tradito.
Con rimproveri acerbi, a te ragione
non chiederò dell’oltraggiata fede:
ridonderebbe in me somma viltade,
né in quel cor desterei onta, o rossore.
Tu dell’iniquitá giungesti al sommo;
di commozione in te l’ombra non veggo: —
scoperti i falli suoi, Medea turbossi;
e nell’inferno ancor Megera, e Aletto,
confuse in volto, ad arrossir fur viste;
tu sola, o donna, freddamente atroce,
ne’ tuoi delitti infiggi bieco il ciglio,
e sol ti penti, che non sia compito
il tradimento indegno.
Cleop.   È ver, non sento
né pietá, né rimorsi, e il sol furore
m’alberga in seno; e non mi resta a dire,
se non, ch’io fui la piú spietata donna,
che l’inimico cielo irato, e crudo,
per castigo del mondo unqua creasse;
perfida sí, non, qual dovevo, accorta,
son vinta alfin dai tradimenti istessi,
che mi davan la palma: assai piú iniquo,
piú traditor di me, giubbila Augusto;
io piango invan. — Deboli troppo i detti
sono a spiegar l’orrido caso acerbo; —
rendimi il ferro; ei parlerá piú fiero.
Anton. Tel renderò fra breve; ed arrossire
il vincitor vedrassi, in faccia al vinto.