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atto quarto 47
fia il sol rimedio a tue sventure estreme.

Non è sincero, qual lo credi, Augusto,
non è un eroe; e simularne i detti
quasi non sa. Vanne, regina, al tempio:
lá degli uomini in faccia, e degli Dei,
se ti piace cosí, vanne a arrossire:
io la vittima son, prima, che debbe
farvi i Numi propizj; e il sangue mio
bastasse pure al reo furor d’Augusto...
Ricada in te piú avventurata sorte,
donna, di quella, ond’è il mio cor presago.
Cleop. Al par di te sprezzo la morte, e fora,
se m’ingannasse Augusto, il mio rimedio.
Quando fia necessario, e chi cel vieta?
Ma se tu m’ami ancora, e se d’Augusto
son veri i detti; e allor perché morire?
Sa il mondo tutto, che da’ tuoi primi anni,
piú ad accordar, che ad implorar perdono
avvezzo fosti: or del perdon raccogli
tu i dolci frutti, e a me l’onta ne resti.
E che sará, se non è il crudo amore,
quel che mi spinge ad abbassarmi ai preghi?
Se amor non fosse, ad implorar mercede,
non mi vedrebbe il vincitor; dal vinto
solo un ferro vorrei, solo la morte.
Anton. Tu vuoi, ch’io viva, e il dono iniquo accetti:
io non dovrei; ma il mio dover cangiossi,
da gran tempo di giá, nel tuo volere.
Al tempio andrò, per impetrar dai Numi
l’arte suprema di conoscer gli empj.