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atto quinto 237
tinto ei ti vede? E la misera nostra

ottima madre, che d’entrambi i figli
orba cosí faresti? perché, al certo,
ucciso me, non ardiresti ad essa
innanzi mai, mai piú venirle. Ah, pensa
qual, senza noi, vivria quella infelice:
pensa...
Caíno   Ah Fratello! il cor mi squarci a brani:
sorgi omai, sorgi: io ti perdono: in questo
abbraccio... Ma, che fo? che dissi? Iniquo,
prestigio sono i pianti tuoi: non dubbio
è il tradimento tuo; perdon non merti;
né ti perdono io, no.
Abèle   Che veggo? or crudo
giá piú di pria ritorni?
Caíno   Io, sí, ritorno
qual teco deggio. Or, sia che vuol; quel bene
«si nieghi a me, pur che a costui si nieghi». —
Non piú perdon, pietá non piú; non havvi
piú, né fratel, né genitor, né madre.
Giá d’atro sangue l’occhio mi si offusca:
un mostro io scorgo ai piedi miei. Via, muori.
Chi mi rattiene?... Chi mi spinge il braccio?...
Qual voce tuona?
Abèle   Iddio ci vede.
Caíno   Iddio?
Parvemi udirlo: ed or, vederlo parmi,
perseguirmi, terribile: giá in alto
veggo piombante sul mio capo reo
questa mia stessa insanguinata marra!
Abèle È fuor di senno, affatto. Oh vista! Io tremo...
da capo a piè...
Caíno   Prendi tu, Abèle, prendi
tu questa marra; e ad ambe man percuoti
sovra il mio capo tu. Che tardi? or mira,
niuna difesa io fo: ratto, mi uccidi: