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atto quinto 235
fa ch’io t’intenda: in che mancai? che arcano

ti fu svelato? oh Dio! sovra il mio volto,
negli occhi miei, ne’ detti, nel contegno,
non ti si affaccia or l’innocenzia mia?
Io felice, a tuo costo? esser felice
può Abèle mai, se tu nol sei? Deh, visto
mi avessi tu, quand’io stamane al fianco
non ti trovai, destandomi! oh qual pianto
io ne faceva, e i genitori! Intero
quindi il dí tutto ho consumato indarno
affannoso cercandoti e chiamandoti,
né ti trovando mai; bench’io tua voce
di tempo in tempo mi sentissi innanzi,
che rispondea lontana: ed io piú sempre
mi venia dilungando seguitandoti
fin lá sul fiume; oltre le cui largh’onde
tremai che tu, qual nuotator robusto,
varcato fossi...
Caíno   E di quel fiume ardisci,
tu temerario, a me muover parola?
Tremasti, il credo, che varcatol’io,
tolta fosse in eterno a te la speme
di mai varcarlo tu. Col vero, il falso
mescere anch’osi? e che di lá mia voce
ti rispondesse, assévri? Ma omai giunto
è il fin d’ogni arte iniqua: invan miei passi
antivenir quivi tentasti: in tempo
ti soprarrivo, il vedi: or, non che il fiume,
del ciel pur l’aure non vedrai piú mai.
Ch’io ti ferisca; prostrati.
Abèle   La marra,
trattieni, deh! non mi percuoter: vedi,
io mi ti prostro, e tue ginocchia abbraccio.
Deh, la marra trattieni! Odimi: il suono
di questa voce mia, colá pe’ campi,
tante volte acquetavati, quand’eri