Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie postume, 1947 – BEIC 1726528.djvu/220

214 abèle
  Sgombriamo intanto: non è lunge il giorno:

  lasciam ch’entri la luce, ed esca il Sonno.
  Pria che in questi mortali occhi ritorno
  faccia dei sensi l’ozíoso donno,
  per lo gran pianto saran consumati.
  Sgombriamo, or sí; ma armati
  sempre aggiriamci a queste soglie intorno.


SCENA SECONDA1

Caíno, e gli altri, dormienti.

Che fu? che fu?... Son io ben desto!... Or, donde,

dond’è che il sonno, anzi il venir dell’alba,
giá mi abbandona? è notte ancora. Il sonno,
fors’io mercato col sudor diurno
non mel sono abbastanza?... Ecco questi altri
dormir frattanto placidi. E che fanno,
che fan costor poscia svegliati, e sorti
dalle lor foglie morbide? Caíno,
Caíno fa; tutto, Caíno: e il caro,
e l’occhio pur dei genitori, è Abèle.
Mi si vorria ciò ascondere, ma indarno:
pur troppo io ’l veggo. A che piú stai, Caíno,
fra questa a te nemica gente? — Oh cielo!
Nemici a me il fratel, la madre, il padre?...
Son’io ben desto? Or, che diss’io?... Ma, quale
gel, non sentito pria, mi assale il petto?
E come, a un tempo, in mezzo al gelo avvampo
di subit’ira? Or, che diss’io?... Ben dissi:
questo nido d’ingrati, io sí, per sempre,
lasciarlo vo’. Saprò ben io, con questo


  1. Spariti tutti i Demonj, Caíno destatosi balza dallo strato.