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mostro sarebbe almeno stato utile in parte se alla tragedia avesse disgombrata la strada, finora pur tanto impedita.

Se poi questa mia temeraria impresa di voler inventare del falso, quando giá tanto ce n’era, non dovesse produrre che degli errori, e dei mostri peggiori ancora di quest’Abèle, desidero in tal caso d’essere stato io ’l solo a tentarlo, e che un sí fatto genere in questo solo mio parto e nasca e perisca.

Del resto questa specie di rappresentazioni, come molto spettacolosa piacerá facilmente al volgo; come nuova, ed in parte anche falsa, piacerá pure ai tanti amatori del nuovo e del falso. La Tramelogedia, oltre ciò, avrá gran bisogno della protezione dei Principi, e dei governi, o sia dei potenti e dei ricchi; perché ella non potrá mai essere bene eseguita in teatro, ad ottenere il suo pieno effetto, senza un’enorme spesa nei vestiarj, decorazioni, e soggetti. Questa sua natia dipendenza, di cui ella è degna, e che tanto meno me la rende gradita, parrebbe dover essere un grande ostacolo al di lei esito: ma quella stessa ragione potrebbe anche operare il di lei innalzamento. Un qualche matrimonio di Principi, una coronazione, una pace gloriosa, o qual altra di simili feste, potrebbe forse prestar l’occasione di tentare per amor di novitá la rappresentazione d’una tramelogedia con la necessaria sua pompa. Ed in sí fatta occorrenza, la borsa del Principe potrá, non in tutto, ma in parte supplire al poco ingegno ed al poco giudizio degli autori, ove tali pur fossero; stante che anche una mediocrissima composizione, coll’ajuto magico del mastro di cappella, dei cantanti, ballerini, attori, scene, e vestiario, verrá pure a dilettare moltissimo il volgo. E questa è altresí l’una delle principali ragioni per cui io stesso, piuttosto padrigno che padre, giudico la tramelogedia di gran lunga inferiore alla vera tragedia; poiché questa col solo mezzo di cinque o sei personaggi che intendano e sappiano l’arte loro, soggiogherá e l’intelletto ed il cuore degli ascoltanti, senza che v’entri per nulla il veicolo degli altri sensi, e senza il superfluo apparato pomposo.

Finisco, augurando all’Italia ch’ell’abbia una volta (se non per mio mezzo, per quello di qualunque altro autore) un vero teatro, in cui si assegni a ciascun’arte il suo debito luogo; e che l’Opera confinata dentro ai naturali suoi limiti di argomenti favolosi, scherzosi, e amorosi, non si usurpi piú lungamente il primato su la divina tragedia. Troppo è diverso il frutto di questi due spettacoli, perché mai una sana Nazione li lasci tra essi gareggiare del pari: