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atto quarto 165
a sostentare il corpo mio per queste

fauci mai piú non scenderá. Ch’io poscia,
irriverente, un tal mio giuro infranga,
tanto possibil fia, quanto che Alceste,
rotte le leggi dell’eterno Fato,
dal negro Averno a riveder quest’alma
luce del Sol mai rieda. — Udiste? Or queto,
e in me securo, io stommi. A piacer vostro,
voi, crudi amici, con pietá fallace
frenatemi, opprimetemi, straziatemi,
e per anco negatemi la vista
del sospirato corpo; io giá con essa
sto fra gli estinti. Or tu, se mai mi amasti,
padre, tu queste mie spoglie poi chiudi
entro uno stesso avello con le spoglie
della mia Alceste. — E quí dò fine ai detti.
Né un sospiro, né un moto omai, né un cenno
uscirá piú da me.
Feréo   Deh, figlio, figlio!...
Lo abbandonan le forze...
Coro   In lui cogli Inni,
Donne, avviviam religíosa speme.


CORO

MONOSTROFE

           Tutto ei può, tutto egli è, tutto ei penétra

     col folgor ratto del divin suo ciglio,
     il Regnator dell’Etra.
     Né indarno mai, né a caso
     scagliato è strale d’immortal consiglio.
     Non disdegnando umane forme, ei volle
     il clavigero figlio
     giá procrear di Alcména bella in seno;
     quel forte Alcide, che su i forti estolle