Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. III, 1947 – BEIC 1728689.djvu/234

228 mirra
troncar; perdona: ma mie laudi tante,

pria di mertarle, udir non posso. Al core
degno sprone sarammi il parlar tuo,
per farmi io quale or tu mi credi, o brami.
Sposo a Mirra, e tuo genero, d’ogni alto
senso dovizia aver degg’io: ne accetto
da te l’augurio.
Ciniro   Ah! qual tu sei, favelli. —
E perché tal tu sei, quasi a mio figlio
io parlarti ardirò. — Di vera fiamma
ardi, il veggo, per Mirra; e oltraggio grave
ti farei, dubitandone. Ma,... dimmi;...
se indiscreto il mio chieder non è troppo,...
sei parimente riamato?
Pereo   ... Io nulla
celar ti debbo. — Ah! riamarmi, forse
Mirra il vorrebbe, e par nol possa. In petto
giá n’ebbi io speme; e ancor lo spero; o almeno,
io men lusingo. Inesplicabil cosa,
certo, è il contegno, in ch’ella a me si mostra.
Ciniro, tu, benché sii padre, ancora
vivi ne’ tuoi verdi anni, e amor rimembri:
or sappi, ch’ella a me sempre tremante
viene, ed a stento a me si accosta; in volto
d’alto pallor si pinge; de’ begli occhi
dono a me mai non fa; dubbj, interrotti,
e pochi accenti in mortal gelo involti
muove; nel suolo le pupille, sempre
di pianto pregne, affigge; in doglia orrenda
sepolta è l’alma; illanguidito il fiore
di sua beltá divina: — ecco il suo stato.
Pur, di nozze ella parla; ed or diresti,
ch’ella stessa le brama, or che le abborre
piú assai che morte; or ne assegna ella il giorno,
or lo allontana. S’io ragion le chieggo
di sua tristezza, il labro suo la niega;