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Sofon. — Siface seco non mi volle estinta.

Massin. Meco salva ei ti volle.
Sofon.   Ei giá riebbe
sua libertá; quella ch’io cerco, e avrommi. —
Teco sottrarmi dal romano campo,
nol poss’io, se non perdo appien mia fama.
Di vero amor troppo mi amasti e m’ami,
per salvarmi a tal costo: io, degna troppo
son del tuo amor, per consentirtel mai.
Null’altro io dunque, in rivelar tue mire,
ho tolto a te, che la funesta possa
di tradir la mia fama e l’onor tuo.
Massin. Nulla mi hai tolto; assai t’inganni: ancora
tutto imprender poss’io: rivi di sangue
scorrer farò: versare il mio vo’ tutto,
pria che schiava lasciarti...
Sofon.   E son io schiava?
Tal mi reputi or tu?
Massin.   Di Roma in mano
ti stai...
Sofon.   Di Roma? Io di me stessa in mano
per anco stommi: o in mano tua, se in core
regal pietá per me tu ancor rinserri.
Massin. Inorridir mi fai... Sovra il tuo aspetto,
di risoluta morte alta foriera
veggo, una orribil securtá... Ma, trarti...
Sofon. Tutto fia vano: al mio voler, che figlio
è del dovere in me, forza non havvi
che a resistere vaglia. È la mia morte
necessaria, immutabile, vicina;
e fia libera, spero; ancor che inerme
io sia del tutto; ancor ch’io, stolta, in Cirta
l’amico sol dei vinti re lasciassi,
il mio fido veleno; ancor che un sacro
solenne giuro di sottrarmi a Roma
dal labro udissi del mio stesso amante;...