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atto quarto 101
la dignitá degli efori, e la stessa

tua innocenza, ove l’abbi. Udiati Sparta,
del tuo asilo in discolpa, addur finora,
che tor cosí tu stesso alla tua plebe
de’ tumulti volevi ogni pretesto,
e ogni mezzo di sangue: infra sue grida,
come or vorresti al suo cospetto andarne,
e un giudicio ottener libero e queto?
Agide Questo giudicio, e il men dannoso a voi,
stato sarebbe il percussor mandarmi
tosto al carcer: ma questo, assai men queto
fia di quel che sperate. In me non parla
il timor, no; del mio destin giá certo,
securo quí, del par che al foro, io vengo.
Giá la sentenza mia so senza udirla:
ma, non ne avrò pur danno altro giammai,
che quel ch’io da gran tempo ho fermo in core
di aver da voi. — Giudici; e, quai che siate,
voi spettatori; io vi prevengo or tutti,
ch’io, condannato in queste mura e ucciso,
non perciò pace col morir vi rendo,
com’io il vorrei: né voi, col trarmi a morte,
in sicurtá vi rimanete. — Or sia
ciò ch’esser vuole. Udiam le accuse.
Anfar.   In nome
io ti parlo degli efori; me ascolta. —
Agide, hai tu, senza né udirlo, astretto
all’esiglio Leonida?
Agide   Chiamato
ei fu in giudicio; e sen fuggia.
Leon.   Chiamato
io fui, nol niego, ma davanti a fera
tumultuante plebe. Esser potea
giudicio, quello?...
Agide   Al par di questo, almeno.
Ma, il fuggir ti fu dato: in carcer dunque