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atto terzo 27
aver mi giova: ecco ragione. Omai

pensier mio solo egli è il morir; ma stimo
quí men cruda la morte: indi vi chieggo
questo, a voi lieve, a me importante dono.
Almac. Morte? Ah Romilda! io tel ridico, avrai
quí lieta stanza; e piú ti dico: io spero,
che vi godrai d’ogni tuo sacro dritto.
Se il padre no, render ti posso il seggio;
e il debbo, e il voglio; e a non fallaci prove,
qual sia il mio cor farò vederti;... e quanto
profondamente... entro vi porti impressa...
la imagin tua...
Romil.   Che ascolto? Oimè! che sguardi?...
Che dirmi intendi?
Almac.   ...Ciò, che omai non posso
tacerti;... ciò, che tu scolpito leggi
sul mio volto tremante... Ardo, è gran tempo,...
d’amor... per te.
Romil.   Misera me! che sento?
che dirmi ardisci? O rio destin, serbata
a un tale oltraggio m’hai?
Almac.   Se l’amor mio
reputi oltraggio, io ben punirmi...
Romil.   Ahi vile!
E di virtú la passíon tua iniqua
tu colorire ardivi?
Almac.   Oh ciel! M’ascolta...
Iniquo amor,... ma non iniqui effetti
vedrai... Per te, tutto farò; ma nulla
chieggio da te.
Romil.   Taci. Tu, lordo ancora
del sangue del mio padre, amor nomarmi?
Amor, tu a me? — Sei di Rosmunda sposo;
e di null’altra degno.
Almac.   Ah! qual non merto
nome esecrando!... Eppur, ch’io t’ami è forza,