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158 timoleone
sangue, e terrori; null’altro. A che piú tardi

ad arrenderti a me? Che puoi tu farmi,
se arrender non ti vuoi? Ben vi ho convinti,
che a me nemici rimanete soli;
che vili altrui, non men che a me, vi ho fatti.
Timol. E soli noi tu riserbare in vita
mai non dovevi. Io tel ripeto ancora:
nulla tu festi, se noi non uccidi.
Echilo Mai non sperar di riaverne amici.
Né lusinga, né tempo il può, né forza...
Timol. Né madre il può, qual io la veggio starsi
tacita, e piena di superbia e d’onta.
Echilo A vil non n’abbi. In me primier tua scure
il carnefice volga. Ancor non hai
gustato il sangue di congiunti: il prova;
ti aggradirá: — né sangue altro ti resta
piú necessario a spargere, che il mio.
Timol. Me pria di tutti svena. Un nuovo oltraggio
mi fai, nel risparmiarmi. Ogni piú sacra
cosa m’hai tolto: io son per te cosperso
d’eterna infamia: a che tardar? mi uccidi.
Timof. Pena maggior darò per ora ai vostri
cuori ostinati: il rimirarmi in trono;
e l’obbedirmi.
Timol.   — Hai risoluto dunque
di non uccider noi?
Timof.   Di non curarvi
ho risoluto.
Timol.   E regnerai?
Timof.   Giá regno.
Timol. Misero me!... Tu il vuoi... Ch’io almen nol vegga1.
Echilo Muori, tiranno, dunque.
Demar.   Oh cielo! ah figlio!...

  1. Si copre il volto col pallio.