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atto primo 115
giust’uom, Timoleon, fra lor tu conti?

Piú che se stesso ei t’ama; e assai pur biasma
altamente i tuoi modi. Io creder voglio
santo il tuo fin; ma, impetuoso troppo
tu forse, oprare anco a buon fin potresti
mezzi efficaci troppo: in man recarsi
il poter sommo, a qual sia l’uso, è cosa,
credilo a me Timofane, di gravi
perigli ognora; e il piú terribil parmi;
poter mal far; grande al mal fare invito.
Timof. Savio tu parli: ma se ardir bollente
alle imprese difficili non spinge,
saviezza al certo non vi spinge. In Sparta
vedi Licurgo, che sua regia possa
suddita fare al comun ben volea;
per annullar la tirannía, non gli era
da pria mestier farsi tiranno? Ah! sola
può la forza al ben far l’uom guasto trarre.
Echilo E forza hai tu. Deh, voglia il ciel, che a schietto
fin virtuoso ognor fra noi l’adopri!


SCENA SECONDA

Demarista, Timofane, Echilo.

Demar. Figlio, del nome tuo Corinto suona

diversamente tutta. Al cor lusinga
dolce pur m’è l’esserti madre. Il prode
giá della patria fosti: udir mi duole,
per altra parte, in te suppor non dritte
mire private: duolmi che in Corinto,
anco a torto, abborrire un uom ti possa.
Ansia, pur troppo, io per te vivo.
Timof.   O madre
men mi ameresti, se tu men temessi.
Incontro a gloria perigliosa io corro:
ma tale è pur l’ufficio in noi discorde;