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atto quarto 261
Virginia; vieni; in altro aspetto forse

me quí vedrai.
Virg.a   Col padre favellasti?
Numit. Pentito sei? preso hai miglior consiglio
al fin dal timor tuo?
Appio   Dal timor?... Io?
Dalla pietade il presi. Odimi; e prova
ch’io non pavento, il mio parlar vi sia.
Virginia, io t’amo, e tel confermo: or forza,
che a me ti tolga, esser non può; ragioni,
che a me ti pieghin, ve n’ha molte...
Virg.a   È questo
il cangiar tuo? Deh! madre, andiam...
Appio   Rimani;
ascolta. — E tanto del tuo Icilio cieca
sei dunque? In lui se il temerario ardire
ti piace; ardisco io men di lui? se il grado
n’ami; tribuno anco ei tornasse, pari
fora egli a me? se il cor libero, e gli alti
sensi; non io piú grande in petto il core,
e piú libero serro? io, sí, che farmi
suddito lui, co’ pari suoi, disegno;
mentr’essi a me obbediscono...
Numit.   Ed ardisci
svelar cosí?...
Appio   Tant’oltre io sono, e avanza
sí poco a far, che apertamente io l’oso.
Quant’io giá son, né in pensier pur vi cape:
sta in mio poter, come di mille il brando,
la lingua anco di Marco. Ove tu cessi
d’esser d’Icilio sposa, io la richiesta
fo cessar tosto.
Virg.a   Abbandonarlo?... Ah, pria...
Numit. Oh rea baldanza! Oh scellerato!...
Appio   E credi
che Icilio t’ami, a lato a me? Sue vane