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Ma, se il caso pure volesse che il bene di quell’uno fosse ad un tempo in qualche parte il bene di tutti, il tiranno, nel rimunerarne l’autore, pretesterebbe forse il ben pubblico; ma, in essenza, egli ricompenserebbe il servigio prestato al suo privato interesse. E cosí colui che avrá per caso servito lo stato (se pure una tirannide può dirsi mai stato, e se giovar si può ai servi, non liberandoli prima d’ogni cosa dalla lor servitú) colui pur sempre dirá ch’egli ha servito il tiranno, svelando con queste parole o il vile suo animo o il suo cieco intelletto. Ed il tiranno stesso, ove la paura sua e la dissimulazione che n’è figlia, non gli vadano rammentando che si dée pur nominare, almeno per la forma, lo stato, il tiranno anch’egli dirá, per inavvertenza, di aver premiato i servigi prestati a lui stesso.
Cosí Giulio Cesare scrittore, parlando di Giulio Cesare capitano e futuro tiranno, si lasciava fuggir dalla penna le seguenti parole: «Scutoque ad eum (ad Cæsarem) relato Scœvæ centurionis, inventa sunt in eo foramina ccxxx: quem Cæsar, ut erat de se meritus et de republica, donatum millibus ducentis, etc.»1. Si vede questo passo dalle parole, de se meritus, quanto il buon Cesare, essendosi pure prefisso nei suoi Commentarii di non parlar di se stesso se non alla terza persona, ne parlasse qui inavvertentemente alla prima; e talmente alla prima che la parola de republica non veniva che dopo la parola de se, quasi per formoletta di correzione. In tal modo scriveva e pensava il piú magnanimo di tutti i tiranni, allorquando non si era ancor fatto tale; quando egli stava ancora in dubbio se potrebbe riuscir nella impresa; ed era costui nato e vissuto cittadino fino a ben oltre gli anni quaranta. Ora, che penserá e dirá egli su tal punto un volgare tiranno? colui che nato, educato tale, certo di morire sul trono, se ne vive fino alla sazietá nauseato di non trovar mai ostacoli a qualunque sua voglia?