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iv. la virtú sconosciuta
 



Francesco. Negar non tel voglio, se ciò al tuo dolore è sollievo; ma se con ciò speri di farmi piú noto al mondo, ti pregherò pure di nol fare. Ad ogni uomo si pongono tutto dí delle lapidi, e inosservate meritamente elle passano. Ogni, anche ottimo verso, che sulla tomba di un estinto si legga, non equivale mai al semplice nome di chi alcuna chiara cosa operava; nulla rimane di chi nulla fece, ancorché si sforzi in contrario ogni piú alto ingegno. Tomba dunque assai degna, e la sola ch’io brami, ottenuta ho io finché voi vivete, nel tuo cuore e nell’altro che al tuo sí strettamente allacciato è per sempre. Estinti voi, con voi non dorrammi di affatto perire, se cosí vuole il vostro destino; ma se la fama pure delle opere tue dal sepolcro ti trae, quella picciola parte di essa me ne basta che disgiungersi non può dalla tua in chi tanto amasti e cotanto ti amava.

Vittorio. Noi dunque quanto alla lapide seguiteremo il dettato del nostro addolorato cuore; senza scordarci però della sublimitá vera di questi tuoi ultimi detti.

L’estremo mio prego, di cui sconsolato oltre modo ne andrei se a me tu il negassi, si è che ti piaccia concedermi che io intitoli al tuo per me sacro nome la mia Congiura de’ Pazzi, tragedia, in cui quanto piú altamente ho saputo, quei sensi stessi ho spiegati che dal tuo infiammato petto sí spesse volte prorompere udiva con energía e brevitá tanta di maschie e sugose parole.

Francesco. Ciò che in codesta tragedia non debolmente, parmi, esprimesti, non nego giá io d’averlo fortemente sentito; ed in ciò eravamo noi pari: ma ella è ben tua la tragedia, e come cosa tua, e degna di te, l’accetto io, e come cara e somma dimostrazione del tuo affetto la tengo; purché con troppe laude non vogli in quella dedica piú onore né parte ascriverne a me, di quello che a me se ne aspetti. In vita, rimembrami, di ciò ti parlava fin da quando a me destinata l’avevi, e ricevutala io; benché le fortissime veritá che lá entro si leggono, poteano di danno riuscirmi non lieve, finché costretto era io di vivermi entro il mio carcer natío: alla tirannide, il sai, non