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libro iii - capitolo xii
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sperare, e ardentissimamente bramare, che gl’italiani siano per essere i primi a dare in Europa questo nuovo, dignitoso e veramente importante aspetto alle lettere; ed i primi (come è ben giusto) a ricevere poscia da esse un nuovo e grandioso aspetto di politica durevole societá.

E il credere o il dire che quanto giá è stato fatto dagli uomini, non si possa piú da altri uomini rifare, e massimamente in quello stesso terreno, è questo un assurdo e debole assioma; è questa la solita e ottusa arme dei timidi e vili ingegni, che impossibile affermano tutto ciò ch’essi non possono, e la loro inferma vista non estendono piú lá che a una o due sole generazioni di uomini. Ma cosí certamente non vede colui che sente e riflette davvero. Questi, se egli romano nasce nei divini tempi dei Deci e dei Regoli, giá piange in se stesso nel vedere i lontani corrotti nepoti di quelli che, per la successione naturale delle cose, peggiori nascendo, fra pochi secoli la repubblica in perdizion manderanno. Ma se egli al contrario nella presente Roma si trova esser nato, si allegra ed innalza in se stesso, nel rimirare col tempo i Deci risorti ed i Regoli; stante che tutto ciò che ha potuto essere può ritornare e sará; e al colmo della sua nullitá essendo giunta quasi oramai la moderna Italia, non potrá fra breve se non retrocedere.

Io dunque finirò questo capitolo con un assioma affatto diverso da quello dei piú ed è: — che la virtú è quella tal cosa, piú ch’altra, cui il molto laudarla, lo insegnarla, amarla, sperarla e volerla, la fanno pur essere; e che null’altro la rende impossibile, quanto l’obbrobriosamente reputarla impossibile.

Capitolo Duodecimo

Ricapitolazione dei tre libri e conclusione dell’opera.

Ma giunto son io a quel segno oramai oltre cui questo presente mio tema non comporta il trascorrere. Onde tutti gl’immensi effetti, che dalle qui proposte lettere e dai loro scrittori

 V. Alfieri, Opere - iv. 16