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ii. del principe e delle lettere
 



Capitolo Settimo

Quanto sia importante che il letterato stimi con ragione se stesso.

Avendo io nel precedente capitolo, per quanto mi pare, dimostrato che dal conoscere se stesso, con intimo e pieno senso delle proprie facoltá, nasce la perfezione del letterato, e quindi la durevole sua fama; piacemi in questo di ragionare a lungo su la stima di se stesso, che dée necessariamente nello scrittore originarsi dalla intima e assennata di lui securtá nei propri suoi mezzi.

E dico da prima che da una tale stima vivamente sentita, e alle volte anche spinta alquanto oltre al vero, ne nasce il divino effetto di valere l’uomo assai piú che non varrebbe per se stesso, se egli meno si stimasse. Questa idea di sé, per quanto si può osservare dai fatti, ha generato sommi effetti, non solamente in alcuni individui, ma perfino nei popoli interi. Gli spartani, ateniesi, e romani, attesa la smisurata opinione di se stessi, saputa loro infondere dei savi governi, fondata però su alcune vere basi, divennero infatti per sí gran tempo superiori ai popoli tutti con cui ebbero che fare. E nei loro primi tempi, l’opinione di se stessi certamente avanzava la realitá della loro forza: ma si verificò in appresso una tale opinione, perché nel piú delle cose, il crederle fortemente le fa essere; come il debolmente crederle cessare le fa. Ma di nessuna si vede piú pronto e sicuro questo effetto, che della opinione avuta da ciascuno individuo di se stesso. Non dico io per ciò che ad essere un uomo grande basti il credersi tale; anzi, chi lo è tale per lo piú non si reputa: ma dico bensí che a volerlo divenire, bisogna essere in se stesso convinto di averne tutta la capacitá, e aggiungervi un intenso e incessante volere; e il tutto corredare poi di quella saggia diffidenza di sé, che non è né viltá, né coscienza della propria debolezza, ma un profondo sentimento della difficoltá e sublimitá della perfezione.