Sotto a’ tuoi pie’ profondi abissi, e densa
Caligin miri; intorno un mar di nevi,
E d’ombre pinta la pianura immensa.
Il dotto sguardo allor tu rivolgevi
Ai varî ordigni, onde le varie tempre
Sai del foco scoprir, dell’aure lievi;
A quegli ordigni, che a te fidi sempre
Soglion predire il dì futuro, o splenda
Sereno, o in pioggia si disciolga e stempre.
E a chi più nota mai fu la stupenda
Del liquido metal virtude, e quale
Ne’ vitrei tubi inchiuso or salga or scenda?
Pur qual, mirando, alto stupor t’assale.
Ch’oltre una spanna esso discese, e meno
Di due nel tubo sostenersi or vale,1
Nell’alto tubo, che un aperto seno
Mentre offre all’aria, il varïabil peso
Bilanciando di lei ti scopre appieno.
Nell’altro angusto tubo esso è pur sceso
Sì, che segno non sol d’acuto gelo,
Ma della morte di natura è reso;2
Quindi è che ninno in quell’estranio cielo
Di terra o d’aria abitator vedesti,
Nè fronda, od erba di vivace stelo.
Debil arde la fiamma, ch’ivi desti,3
E d’ignea canna il fragoroso tuono
Par che sopito nel gran vano resti.4
Tali i prodigi e i cambiamenti sono
Che a te primier fu di scoprir concesso
La ’ve Natura sovra l’orbe ha trono.
Ma chi dirà quel che soffrir tu stesso
Dovesti da languore insuperabile
Non pur le membra, ma lo spirto oppresso?