Tu, che pur or dall’etra, ove sospinto
Con stupenda virtù Pilatre1 s’era,
Cader facesti dal suo peso vinto,
Sì che la salma affumicata e nera
Parve accoglier pur ei dolente il suolo,
Non che d’amici la pietosa schiera,
Natura, in questo fortunato e solo
Giorno a’ trofei del nostro eroe prescritto,
Deh! non rinnova all’Arti un simil duolo!
Già ver l’estremo vertice, che ritto
Tutto di ghiaccio solido s’innalza,
Giunto è co’ suoi il condottiero invitto:
Inerpicati su per quella balza
L’occhio li scopre alfin del popol folto,
Che per mirarli già si preme e incalza.
Siede nel fondo non deserto e incolto
Della valle un päese2; ivi in aperto
Loco si stava il popol tutto accolto;
Ognun pendeva desïoso, incerto
Fra timore e speranza; ma il timore
Vincea nel core più in amare esperto,
Nel più tenero core: ahi! Sposa, ahi! core,
Che non soffrivi? Deh! perchè non fui
Misto io pur allo stuolo spettatore?
Tu il fosti, e gli occhi immobili su lui
Tenendo, che alla meta mai giungea,
Spettacol di te offristi agli occhi altrui,3
Quando tremante la tua man correa
A quell’ottica canna, che d’un dio
D’amore invenzïone esser dovea,
Che il dolce ben, poi che da noi partio,
Ravvicina pur anco, e il caro volto
Svelato rende al cupido desìo,