Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 138 — |
corso il tapir delle selve e lo struzzo del deserto; il suo dorso enorme si contorceva e si divincolava pe’ tronchi diluviani di quei grossi alberi, che crollavano le cime a quell’urto erculeo.
Di poi un’altra montagna, una seconda, una terza si alzarono nel fondo di quella boscaglia; e quasi in un turbine confuse lottarono corpo a corpo, sfracellando e schiantando col peso quanto si opponeva al loro passaggio.
Sarebbesi detto che il Parahyba, levandosi qual nuovo Briareo nel mezzo del deserto, protendesse le sue cento braccia titaniche, e stringesse al petto, soffocando in una convulsione orribile, tutta quella foresta secolare nata col mondo.
O che uno di quei mostri enormi, di que’ boa tremendi, che vivono negli abissi delle acque, mordendo la radice di qualche roccia rotasse l’immensa sua coda, e ravvolgesse fra le sue mille spire il bosco crescente lungo le sponde.
Gli alberi crepitavano; e divelti dal seno della terra o spezzati nel tronco, prostravansi vinti sotto il gigante, che caricandoli sugli omeri li portava verso l’oceano.
Il fracasso di quelle montagne d’acqua che si frangevano, lo strepito del torrente, il fragor delle roccie mobili che si urlavano e andavano in polvere, riempiendo lo spazio di una fitta nebbia, formavano un concerto orribile, degno del dramma maestoso che si rappresentava su quella gran scena.
Le tenebre avviluppavano il quadro, e appena