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La sala era come un mar di fuoco; tutte le persone, che si moveano in quella sfera luminosa, pareano avvolte da onde ignivome.

Nel fondo risaltava la figura maestosa di don Antonio de Mariz, in piè, nel mezzo dell’armeria, che alzava colla mano sinistra un’immagine di Cristo e colla destra abbassava la pistola sopra quella cava oscura, in cui dormiva il vulcano.

Sua moglie gli abbracciava le ginocchia calma e rassegnata; Ayres Gomes e i pochi avventurieri superstiti, immobili, inginocchiati ai suoi piedi, formavano il basso rilievo di quella statua degna di un grande scalpello.

Sovra il cumulo di rovine prodotto dal muro diroccato, disegnavansi le figure sinistre dei selvaggi, somiglianti a spiriti satanici danzanti nelle fiamme infernali.

Pery vide tutto ciò d’una sola occhiata, come un quadro vivo, illuminato un momento dal chiarore istantaneo del baleno.

Un fracasso orrendo rimbombò per tutta quella solitudine: la terra tremò, e le acque del fiume si arrovesciarono, come percosse dal tifone.

Le tenebre avvolsero la roccia rischiarata poc’anzi dalle fiamme, e tutto rientrò nel silenzio profondo della notte.

Un gemito esalò dal petto di Pery, forse l’unico testimonio di quella gran catastrofe.

L’Indiano, dominando il suo dolore, curvossi sul remo, e la piroga volò sulla superficie tersa e limpida del Paquequer.