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trentasei avventurieri accerchiavano una lunga tavola, nel cui mezzo vedevansi in piatti di legno alcuni capi di cacciagione, già trinciati in modo che facea onore all’appetito dei convitati.
Il vino catalano non arrubinava i bicchieri di terra o di metallo in quella abbondanza, che si sarebbe desiderata; ma in ricambio vedeansi negli angoli della stanza grosse anfore piene di vino di cajù e di cauim, ove gli avventurieri poterano attingere a loro piacere.
Il vizio avea trovato modo di supplire ai liquori europei colle bevande selvaggie: all’infuori di poca diversità nel sapore, eravi in fondo di esse l’alcool, che eccita gli spiriti e produce l’ebbrezza.
Il pasto avea cominciato da mezz’ora: nei primi momenti non si udivano che i baci dati ai bicchieri, il masticar dei denti e il battere degli arnesi nella scodella.
Dipoi uno degli avventurieri proferì una parola, la cui replica fece immediatamente il giro della tavola; la conversazione si ridusse ad una specie di coro confuso e scordante.
Fu nel mezzo di questa gazzarra, che uno dei convitati alzando la voce, gettò queste parole:
— E voi, Loredano, non dite nulla? State così che non ci ha modo di udire una delle vostre parole!
— Certo, soggiunse un altro; Bento Simoes dice il vero; se non è la fame che vi rende muto, qualche cosa vi tiene in pensieri, signor Loredano.
— Metterei il prezzo, disse un terzo, che sono