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nulla giovavano al re di Portogallo, giurò serbargli almeno fedeltà fino alla morte.

Prese i suoi penati, il suo blasone, le sue armi, la sua famiglia, e andò a fissare la sua sede in quel feudo, che eragli stato concesso da Mem de Sà.

Quivi, dal luogo eminente su cui accingeasi a piantare la sua dimora, don Antonio de Mariz affacciandosi colla sua decorosa persona, e gettando un’occhiata orgogliosa sui vasti orizzonti che gli s’aprian dinanzi, sclamò:

— Qui sono portoghese! Qui può respirare liberamente un cuore leale, che giammai smentì la fede del suo giuramento. In questa terra, che mi fu data dal mio re e conquistata col mio braccio, in questa terra libera tu regnerai, Portogallo, come vivrai nell’anima de’ tuoi figli. Lo giuro!

Scoprendosi il capo, piegò il ginocchio a terra, e stese la mano destra sopra l’abisso, i cui echi addormentati ripeterono in lontananza l’ultima frase di questo giuramento prestato sull’altare della natura, in faccia del sole che tramontava.

Questo avveniva nell’aprile del 1593; il giorno appresso cominciarono i lavori per la costruzione di una piccola abitazione, che servì di dimora temporanea, finchè gli artisti venuti dal regno eressero e decorarono la casa che già conosciamo.

Don Antonio aveasi fatto un buon patrimonio nei primi anni della sua vita di ventura; e non tanto per capriccio di cavalleria, quanto per