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un’ora della mia giovinezza. |
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E da quel giorno mai sovra il paterno
Camperello la grandine non cadde;
Nè al mandorlo imprudente arse la brina
I frutti; nè verun maggior dolore
Osò varcarne la vegliata soglia.
Avea riccia la chioma e colorata
Come la buccia di castagna alpina;
Molti fior di giardino avrian voluto
Paragonarsi coll’aerea tinta
Che azzurreggiava ne la sua pupilla;
Ma ciò che forse le venìa più presso,
Era il lin che fiorisce, o il ciel di sera.
Sovra un balcone si educava un cespo
Di gelsomino, e quando e’ si coprìa
Di sue candide stelle, i primi fiori
Ella offeriva a un rustico altarino
Infisso al tronco d’un vetusto noce;
Dava i secondi a un Alpigiano, al quale
Avea già dato il cor. Beltà dicea
Chi dicea Caterina. Ahi! ma sovente
Quei che dice beltà, dice sventura!
Avvenne un dì, ch’ella cogliea manelle
D’erba sugli orli dell’abisso, e dietro
Quell’Alpigian venia. Fuor del costume
Torbido in cor per non so qual sospetto
Ei minacciò la vergine. Si strinse
Coll’atto di mimosa pudibonda
Quella, sdegnata; e le falliva il piede;
E qua e là battendo e ribattendo,
Ruinò dall’altezza e giacque al fondo
Dilanïata. Ella si spense, come
Si spegne un cero per soffiar di vento:
Salgono al cielo l’anima e la fiamma.