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poemetto giovanile. 469

Per l’äer cieco, non s’udia che un rotto
Anelito di petti affaticati
A spirar la sventura: e di quel breve
Pauroso silenzio eran gl’istanti
Enumerati dai singhiozzi in terra,
Dal custode segnati angiolo in cielo.
Quando a la porta s’affacciò sinistra
La figura d’un Arabo. Su lui
Da la virtù d’un reo fàscino vinti,
Come per muta tenebría scintille,
Si conversero cento occhi di donne;
Quasi volesser coi fulminei sguardi
Incenerirlo. — Ei con beffardo accento
Loro indisse d’uscir. — Pietà non era,
Che su la tolda a respirar le addusse
Le placide frescure, e l’odorosa
Brezza, che lambe le tepenti rive:
Era timor che l’agitata e greve
Dimora ne la stiva a la bellezza
Appassisse le rose; e men gioconde
Tornassero le veglie a la feroce
Sete de’ sensi, che a Bisanzio attende.

     Nube in cielo non era, e dietro i colli
Vitiferi di Candia il sol morìa:
A quelle derelitte ultimo forse
Fra gli occidenti de la patria: e in due
Ne partiva la vita; in quel soave
Paradiso che fu, sparso di fiori,
Di blandizie e d’amore; e in quella ignota
Landa d’esilio che non à ritorni,
Terminata soltanto allor che aperto