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poemetto giovanile. 459

D’una vinta cittade era l’incendio.
E correano, correano, e si sentia
L’unghia di marmo battere il sentiero;
Finchè la terra si perdeva, e il lido
In un negro mettea vasto oceàno:
E quell’urna solcarlo; e la persona
Morta, tremendo navichier, sedea
Fra le spume del mar.

                                        Ma un’oppressura
Più tormentosa ognor, ma l’impudico
Premer d’un bacio che le cerca i labbri
Quasi fugace rettile che strisci
Su le carni notturno, a quell’afflitta
Rompono i sonni. Apre le luci; in una
Barca lanciata a la balía dei remi
Si vede, e a quel fatale Arabo in braccio,
Cui riga ancora il candido mantello
Il vivo sangue del morente amico.
Si conobbe perduta. E con la mano
L’onta coperse del baciato viso.
Come in nube indistinta in pria le giunse
La ricordanza, indi più netta, infine
Limpida e disperata; in un istante
Vide il passato, vide l’avvenire;
E credette morir.... Ahi! poveretta,
Chè per angosce non si muore in terra!

     Un tramonto sul mare! Oh! come è bello
Il sol che ne le immense acque discende.
Che se la costa, ove al mattin sorgea,
Appellata è Soría; se quelle brune
Macchie lontane, ove tramonta, sono