Mordon la polve. — Sul caduto allora
L’altro inarca l’acciaro, e già la morte
L’Arabo sente. — Se non che, dal fondo
D’una navata sibila una palla;
Nello è caduto! — Furibondo sorge
L’arabo, un motto mormora all’orecchio
D’un fido schiavo, e fin che gli altri al sacco
Si spargono del tempio, ei su novello
Destrier apre la calca e via dispare;
E fuvvi alcun cui parve di vedere
Lungo gli arcioni pendergli dinanzi
Come una forma di persona morta.
O generosi che cadeste, addio! —
Addio, bella di gloria e di dolori
Animosa cittade! Un’odïata
Notte sopra il guancial de la sventura
Ti agitasti, cristiana, e sul mattino
Martire all’onte del servaggio sacra
Ti svegliavi ottomana; e preludevi
De la tua miseranda isola ai ceppi.
Così tramonta de le patrie il sole
All’occaso di sangue imporporato.
Cadono i padri combattendo; i figli
Vivon nell’odio memore: i nipoti
Si rassegnano al fato; e poi fin l’ombra
De la speranza, e le memorie sperde,
Più assai che il tempo, il postero codardo.
Pur nascoso talor fra le rovine
Cresce, da pianto nobile irrigato,
Gracile il fiore de la indipendenza:
Poco a poco, guardingo si propaga
Nei giardini domestici educato,