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poemetto giovanile. 449

Di tante colpe, che non àn perdono.”
E lieve lieve per le vôlte acute
L’eco del tempio rispondea: “Perdono.”

     Quando di Rama sui funerei colli
Passò un lungo lamento, e una regale
Mano i lattanti d’Isräel percosse,
Forse una madre col suo bimbo ascosa
Dietro le sacre are sentía le péste
Omicide vagar, con la medesma
Ansia di questa vergine diserta,
Che per le vie de la città la strage
Or vicina ruggire, or dileguarsi
Nelle confuse lontananze udía.

     Ai lunghi schianti commoveansi i vetri
Del Santuario, e rispondean gli stalli
Vedovi e i sotterranei ambulacri.
S’ode un fragor d’arme, che avanza; scende
Precipitosa da le scale Arnalda,
E davanti l’esanime si ferma.
Guai chi primo la tocca! Ardonle i polsi,
Lampeggia il brando, e ne lo sguardo à impressa
La maestà, che il sacrificio ispira.
Ma quel tumulto or cresce — ora s’allenta,
Finchè per andamenti altri si perde:
Torna il silenzio. Odesi poscia il passo
D’un corridor, che galoppa lontano;
La via divora, s’avvicina, — è giunto,
È già passato. — No: come a prescritta
Mèta dinanzi il portico sonoro
Del Santuario si fermò d’un tratto.
La prima volta, o donna, è che tu tremi!