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note. 339


«Ma se a un tratto squillasse la tromba delle battaglie, se brillasse lo stendardo trionfale, a cui spasima il mio cuore,

Sul mio rapido cavallo mi lancerei nella mischia, mi confonderei cogli eroi, smanioso di consacrar la mia sciabola.

Che se il ferro nimico rompesse il mio petto, ora almeno alcun vi sarebbe che guarirebbe la mia ferita co’ suoi baci e col suo pianto.

Se cadessi vivo nelle mani del nimico, alcuno saprebbe aprirmi la prigione; due begli occhi risplenderebbero nella mia tenebra.

Che se la morte mi cogliesse o sul patibolo o nella pugna, un angiolo, una donna desolata laverebbe il mio corpo con le sue lagrime.»

Se non che la sua Giulia, bella creatura quantunque un poco loschetta, non avendo potuto trovare il suo cadavere per lavarlo con le sue lagrime, dopo alcuni mesi sposò il figliuolo dello storico Horvath.

Essa però gli aveva dato prima un figliuolo, immensa letizia di Alessandro, che gli volse alcuni versi i quali finiscono così:

«Oh, che si possa dire presso al mio sepolcro, senza mettere un lamento: Lui morto, la patria non perde nulla. Nulla. L’anima di lui vive in suo figlio.»

Ma già scoppiava la rivoluzione, e Sandor se ne fece il poeta. L’appello del grande lirico, del grande epico Vövösmarty era per ogni bocca, faceva battere ogni cuore: il padre di Petöfi, il povero macellaio quantunque vecchio e malato, pigliò in mano la bandiera tricolore, e fu alfiere d’una compagnia. Sandor volle far l’agitatore, volle far l’uomo di stato, si dimenò per essere rappresentante della nazione; ma si accorse che non era il fatto suo: pigliò l’arpa e la sciabola che erano davvero il fatto suo, e combattè, e cantò. Cantò la patria, la libertà, suo padre bandieraio, l’Honved, il suo Bem; eccitò, esaltò, satireggiò. Mandò una freccia allo stesso imperadore Ferdinando, chiamandolo Ladislao Ben-bene. Un’altra ne scoccò verso Francesco Giuseppe dopo invocati e ottenuti i soccorsi della Russia.

«Tiranno maledetto, ei dice, tu prevedi ben fatale la perdita, dacché ti vendi a Satana, acciò ti salvi.

Ma, credimi, tu ài conchiuso un cattivo contratto: Satana non ti salverà; e Dio t’abbandona.»

L’ultimo suo canto pare essere stato un brindisi audace, scritto appunto per la festa del giovine imperadore. Il valoroso colonnello Alessandro Teleki lo trovò fra le carte dello stato maggiore