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due pagine autobiografiche. XXIII

ballava sempre sul tavolino, con la immagine dinanzi d’una prigione stiriana, ungherese, boema; molte idee le ò dovute strozzare in germe, molte gettar là a guisa d’indovinello; altre accennare con languido profilo senza potervi mettere le ombre che danno risalto, o il colore che le fa spiccar evidenti. I quali impacci fastidiosi certo non approdano all’arte che vuol essere libera ne’ suoi andari, come l’anima. Di qui molte oscurità: di qui uno stile artifiziato, sconnesso, irresoluto, velato, senza quella linda semplicità, senza quella nervosa nudità, che son tanto care agli artisti, specialmente della razza greca e latina; di qui molta parte di quei difetti, che insieme agli altri, dovuti proprio alla mia insufficenza, balzeranno facilmente agli occhi del lettore.

Schivo poi per indole di ogni servitù, ò sempre avuto in uggia anche la servitù letteraria. Quel poco che potevo essere, o male o bene, ò voluto essere io. Mi sono quindi guardato, più che mi fu possibile, dalla imitazione: 5 ammirato coloro che andavano per la strada maestra, e mi sono messo per un sentierino: ò lasciato ai canefori delle feste antiche l’ufficio di raccogliere i fiori altrui per ispargergli sulla propria via.

Ò scritto più col cuore che con la mente, per-