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A UN AMICO


Mio Caro.

In questi giorni agitati per tanta febbre di aspettazione, postomi, per trovare un poco di quiete, allo smesso studio della Economia Politica, rilessi le opere di Federico Bastiat, e quel tuo lavoro che sai, così splendido, in verità, per concetto e per forma: ed ò sentito che anche da questa scienza, come voi due la trattate, esce un calore di profonda poesia. Sicchè non ò potuto resistere alla tentazione di scrivere dei versi; e questi meschini che mi son venuti, te li mando e te li dedico, quantunque sicuro che non varranno a procurarti un millesimo del nobile diletto che il tuo libro mi à dato.

Nello scriverli mi tornavano sempre a mente le orrende giornate del giugno 1848, che fecero di Parigi un macello di cristiani.

Io c’ero, mio caro, e anzi desiderando vedere come quella gente là, maestra, facesse le barricate, un bel mattino, a una svolta della via Crécy, mi trovai tramezzo alle fucilate, a rischio di farmi ammazzare senza gusto. Che giorni furono quelli! Che angoscia! Non mi sarei mai immaginato che i Francesi fossero così barbari. Il cannone tonava per le strade: le strade correano sangue. Io mi sentivo soffocare; avevo in ira Parigi, e quella Repubblica senza repubblicani. Per raddolcirmi l’anima andai a vedere Lamennais. Il celebre vecchietto era come sepolto in un povero seggiolone, e gli veniva giù una lagrima. Mi sedetti sulla sua branda d’anacoreta, e si stette un pezzo in silenzio. Finalmente con quella sua