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XIV due pagine autobiografiche

so come, mi commossero, mi sollevaron l’anima; ed essa a tradurre, senza volerlo, quelle impressioni in meste note di poesia. Passò un carro che tornava carico di covoni dai campi, somigliante a quello stupendo dei mietitori, che ò visto dopo, ispirato dalla campagna romana al povero Leopoldo Robert. C’era su una nidiata barcollante di villanelle che cantavano una lor villotta con voce resa tremula dagli sbalzi delle rote per l’inugual carraia, e per le catene dei mulini che attraversavano la strada. Que’ buoi dalle lunghe corna, dall’occhio grande e tondo che Omero assomigliava a quel di Giunone; quel villano dinanzi al timone, giovine, scalzo, ercolino, divoto; quel canto che allo squillar della campana moriva in un bisbiglio di preghiera; quell’ultimo lume di ponente che tingea la georgica scena, aggiunsero anch’essi alimento al fuoco contrastato dell’estro. Pochi istanti dopo eravamo venuti di fronte a un mulino da riso: tornava a terra sulla palàncola una mugnaina giovine, bella, battendo svelta sul pancone i suoi fieri zoccolini. La mi strisciò con la veste passando: mi diè la buona notte, e il mio cuore andò in visibilio. Mi sentii tumultuar dentro la fantasia più che mai; e la lucernetta della mia camera sa che quella stessa notte ò disubbidito mio padre. Ero malato del mal dei versi