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ore cattive. 217


IV.

     Ma tu morivi: e a me covvenne il tempo
Medico, Elisa, tal che la ferita
Non dà più sangue. È ver ch’anco non oso
Sfidar le lastre de la tua contrada;
È ver ch’ogni mattin spontaneo porgo
La mia moneta a una fedel mendica,
Perchè porta il tuo nome. E pur il core,
Despota un giorno, or diventò vassallo,
E su lui regno alfin. Ma dimmi, Elisa:
Che fui per te? Chi t’insegnò sì pronta
Virtù d’obblio? Fosti poi lieta? Dimmi,
Adorabil Chimera, ài tu trovato
Chi indovinasse del tuo cor gli arcani?
Un dì per le sublimi Alpi io movea
Dei nepoti di Tell. Da canto al ponte,
Che da Satana à nome, in giù fissava
La vanità del pauroso abisso,
Dove la Reissa, furibonda naiade
Sbatte l’urne di porfido, e ululando
Fugge non vista. Ivi afferrato un cembro,
Curvo sul ciglio lungamente stetti
Su la morte librato. Io non vedea
Che rupi ed ombra. Un indefesso e freddo
Vento recava sibili d’ignoti
Augelli; un rombo di cose cadenti,
E rimoto pei ciechi antri un perpetuo
Mugghio. L’arcano spirito del loco
A piombargli nel sen con malïarde
Vertigini invitava. Era un terrore