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ore cattive. 213

Quell’anima che n’era sitibonda.
Ira e vergogna in rapida vicenda
Volgean le chiavi del superbo core;
Quando giunse una donna incoronata
D’illustri perle il crin di corvo. Avea
Sguardo da impero: la persona svelta
Come palma, e flessibile: le forme
Procaci colorite a la materna
Canicola di Menfi. Un cesellato
Scettro movea che arïeggiava al tirso
Di lasciva baccante. Una cerasta
Mordeale il seno che fu già delizia
D’immortali Quiriti. Avvicinossi
A la seduta, e l’ironia guizzava
Su le sue labbra mentre era per dire;
Ma impetüosa si levò la mesta,
E più regina in quello istante apparve
De la regina, e "Va’, le disse, io nulla
Ò con te di comune. Io non concessi
Agli oppressor de la mia terra un bacio;
Io non fuggii da timida cerbiatta
Al tempestar de la battaglia: vanne."
Tacque e si assise, e un fremito di motti
Egizïani e sangue uscîr dai morsi
Labbri di quella rea che si partía
Mortificata. Allor, come a sorella,
Avvolse al collo de la Sfinge il braccio;
E a lungo in disperato atto rimase
Quella deserta. Una gentil sedette
Soavemente a lei da canto: “Elisa,”
Disse con voce delicata: “Elisa.”
Si scosse l’altra e la guardò. Dal mesto
Volto scorgevi de la nova apparsa