|
raffaello e la fornarina. |
177 |
E l’ombre lunghe de le nere ciglia
Velarono il pudor de le sue gote.
Quel silenzio confuso ei ruppe il primo,
E incominciò: “Bel fior trasteverino,
Perchè nell’ombra di romite mura
Rimani ad olezzar così racchiuso,
Quasi geranio inavvertito in questa
Perpetua sera de la tua casetta?
Degnissima di luce e dell’aperto,
Vuoi tu meco venir nel grazïoso
Mondo a sentirti mille volte il giorno
Dir che sei bella?”
Allor la vereconda:
“Signor, rispose, ho trapiantato anch’io
Talor de’ fiori, e fuor de la lor terra
Tosto appassiro; e mi dicea mia madre,
Che sempre il fior del poveretto è in poco
D’ora obblïato in terra di signori.”
“Apprèssati, ei riprese; io non t’inganno;
Ardo di te. Da lunghi giorni io spio
I tuoi passi, e t’ammiro, e non ho pace,
E mi possiede un tedio impazïente
D’ogni altra cosa. Oh non temer d’obblio!
Tutto che nasce nel mio cor, contiene
Alcun che d’immortal. Vuoi tu donarmi,
O fanciulla, il tuo cor?”
“Ma voi, chi siete?”
Inanimita ripigliò la bella,
Osando alzar il ciglio a quella nova
Eloquenza d’amor che la tentava.