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i fuochi dell’appennino.

Fu la più bella marinara; e quelle
Son le lagune, ove moría Venezia.

     Rode l’aliga e il nicchio, e l’acre fiotto
Le basi inferme e le sconnesse pietre
De’suoi palagi, che gl’illustri nomi
In barbari mutaro: e quando il vento
D’Affrica mugge, sui canali immondi
Cascan dall’alto i fregi, e le pensose
Teste e le braccia a’ suoi dogi di marmo.
La sua gloria sparì, come una barca
Di pescadori, cui la lunga fame
Dei figli spinse a ritentar le irose
Onde del verno, e non tornò più mai.
Un’orfana e una vedova sedute
Sopra la rena, puntan le pupille
Tra le nebbie del mar; e a quando a quando
Asciugano una lagrima coi cenci
Del lor grembiule.
                                   E il suo Lione è morto.
Pur v’à chi dice ch’egli viva ancora,
Che fu visto vagar muto, di notte
Tra gli scogli istrïani, e per le coste
Cavernose dei Dàlmati fedeli
Fino all’ultimo giorno. Esce, e sul lido
Posa l’antico, e con la lenta lingua
Lambe le piaghe che dan sempre sangue;
Ma se l’armonioso inno o il tamburo
Sente sonar dei Vandali, si leva,
E flagellando con la coda i lombi,
Torna al covil che alcun occhio non vide.
E aspetta. E Italia sa cosa egli aspetta.