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Tutta quella potenza dopo due sècoli era trapassata nelli Afgani, che dilatarono il dominio musulmano sino alla foce del Gange (1210); e dopo non lungo intervallo (1293), varcàrono la Nerbudda, penetràrono nella penìsola meridionale (Deccan), desolando i templi delli ìdoli, traendo serve le popolazioni, e accumulando tanta preda, che i soldati nel ritorno gettàrono l’argento, come peso soverchio e vile. Fra i venturieri che la conquista musulmana balzò su li antichi troni dell’India, vi fu un Zaffar-Khan, ch’era già schiavo d’un bramino, e divenuto sultano del Deccan fece ministro il vecchio suo padrone (1367). Sotto quel règime adunque la fortuna delli individui non era più avvinta alla casta. Eppure il mondo interno dell’opinione, anche dopo èssersi dissociato dall’ordine esterno delle ricchezze, si conservò inconcusso su le antiche fondamenta: tanta è la forza delle tradizioni.
Su la fine del sècolo XIV irrùppero di nuovo, sotto il nome di Mogoli, i pastori dell’Asia interna, guidati dal feroce Timur o Tamerlano (1397), che, poste a fil di spada intere città, trucidati in un giorno centomila prigionieri, onusto di preda e di maledizioni, tornò al di là dei monti a còmpiere la furibonda sua missione di rapina e di sangue su tutto quell’immenso spazio che giace tra la muraglia della China e i nostri mari. Egli diceva: «In cielo un Dio solo; e un sol padrone in terra.» Se il panteismo bramìnico annullava l’individuo, l’eguaglianza militare di Maometto annullava in faccia a un individuo tutto il gènere umano. Timur lasciò il terribil nome dei Mogoli a un imperio che tornò tosto a smembrarsi fra le tribù afgane; ma la sua stirpe ricomparve con migliori auspicii in India nel sècolo XVI. Il suo pronipote Baber (1525), espulso dalle squàllide lande del Turchestan, discese su l’Indo con diecimila veterani, supèrstiti da vent’anni di guerre intestine: e con sì poca gente osò affrontare tutta la potenza afgana. Egli medèsimo lasciò scritto nelle sue memorie: «Li Afgani potèvano condurre sul campo cinquecentomila combattenti. Il dì della battaglia di Paniput l’esèrcito di Ibrahim Lodi non contava meno di centomila uòmini e mille elefanti. Nulladimeno, e quantunque i nemici Usbechi mi minacciàssero a tergo, osài