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commune; e trovò irrevocabilmente determinato tutto il tenore della sua vita e de’ suoi pensieri per sè e per i più remoti suoi pòsteri, con iniqua e stolta infrazione di quelle leggi di natura che impressero in ogni èssere umano sì varie attitùdini e sì lìbere inclinazioni. Sotto quell’universale impiombatura, il più generoso cuore doveva bàttere senza speranza, il più sublime ingegno doveva languire e spègnersi, senza aver dato una scintilla della divina sua luce. Eppure dotti metafisici dìssero ai nostri giorni, e i non dotti interminabilmente ripeteranno, che l’Asia è la patria del libero e dell’indefinito.1
Ogni capo-villa trasmetteva il rèddito al capo-distretto; questi, secondochè il suo territorio contava dieci communi o venti, riteneva per sè il frutto di due poderi o di cinque; il prefetto di cento communi riteneva il rèddito d’un commune intero; e il prefetto di mille aveva in godimento una città, e inviava le altre dovizie della provincia al re. Questi doveva giudicare i pòpoli, protèggerli contro le indèbite esazioni, difènderli colle armi, e sopratutto onorare i bramini, i quali pur facèndolo di lunga mano loro inferiore in dignità, lo annunciàvano deputato dal creatore alla conservazione dell’òrdine divino, cioè della potenza bramìnica; e quindi lo acclamàvano Dio sotto umano sembiante. Il godimento universale della terra, in una delle più vaste e ubertose regioni del globo, era una bastèvole mercede per assicurare ai bramini la fedeltà di quelle tribù di montanari, che avèvano trascelte al privilegio delle armi fra una colluvie disarmata e avvilita dalla ferrea disciplina della casta e del bagwar. «Costoro, diceva sin da’ suoi tempi Arriano, attèndono solo alle cose militari, poichè altri ha cura dei loro cavalli, delle armi, delli elefanti e dei carri. Quando è da combàttere combàttono; ma tornata la pace, fanno gioconda vita, provisti di sì generoso stipendio pùblico da sopperir largamente anche ai loro seguaci.»2